di Sara Brianti – Encrucijada*
portolano Parlare del Mediterraneo, specialmente adesso che ce l’ho davanti – che lo guardo, lo sento e lo annuso – mi risulta più difficile del previsto. Sono nata sul mare: la mia città – Siracusa – è costruita sul mare. Ogni suo muro, ogni scorcio, ogni balcone usurato profuma di salsedine. E come da sempre mi ha ripetuto mio padre, io sono nata dentro il mare. Ho avuto la fortuna di essere cullata dalle onde, di sentirne il pericolo, di goderne le meraviglie, di assaggiarne le prelibatezze. Ogni istante della mia vita è scandito dal suo rumore: a dodici anni volevo diventare una biologa marina; a diciassette volevo tentare la strada della capitaneria di porto. A vent’anni ho realizzato di doverne studiare la matrice di significato più profonda, a venticinque di capire i movimenti che gli esseri umani compiono sul mare. Adesso, a ventisette anni, ho sentito la necessità di sapere in che modo quel mare che da tutta la vita navigo è diventato – perlopiù – un cimitero. Perché è così difficile accettare una comunità o una cultura diversa dalla propria?
Se parlare del Mediterraneo significa raccontarlo, l’unico modo che abbiamo di comprenderlo a pieno è quello di ascoltare le voci che al suo interno si mischiano e si uniscono. Il Mediterraneo è una frontiera, ma non necessariamente una frontiera che divide. Il Mare Nostrum, se vale ancora la pena continuare a intenderlo così, proprio per la sua capacità di unire e dividere lembi di terra che a primo sguardo potrebbero sembrare infinitamente diversi, li fa avvicinare irrimediabilmente. Ad ogni mio passo nella città marittima sento gli echi di una tradizione che si è formata e riformata, che si è costruita assimilando sempre qualcosa da coloro che il Mediterraneo l’hanno attraversato. In Ortigia – l’isola che è collegata alla mia città solo da un ponticello e che un tempo ne costituiva il centro – vi è un intero quartiere che rappresenta questo incrocio: è la Giudecca (in siracusano Iureca), che parla e racconta della componente ebraica e arabo-musulmana che per secoli vi ha abitato. Le sue stradine ne urlano l’architettura, i nomi stessi delle vie raccontano di un passato in cui si conviveva in armonia e prosperità, di mestieri che non esistono più e di usanze che rimangono nel tempo.
Il Mediterraneo è un mare chiuso che raccoglie e tiene strette tradizioni sotto alcuni punti discordanti, ma che riesce a fonderle insieme. Eccolo il Mediterraneo come unità, Mediterraneo sognato. Un mare che accoglie, che fa sentire a casa, che ti culla dolcemente. E non solamente per coloro che sono al di qua. Un mare per tutti, un’unione di voci, l’immagine di culture che ballano insieme, non che prendono parte a una marcia funebre, spesso ignorando quanto accade sotto gli occhi di tutti.
* * *
* Encrucijada, dal nome dal mitico bar del romanzo di Roberto Bolaño I detective selvaggi, è un gruppo di studio alternativo, nato ai margini del Dipartimento di Filosofia dell’Università di Torino, nel 2019. Animata dall’interesse per il rapporto tra filosofia e letteratura, la ricerca del gruppo si è concentrata sullo studio della categoria di ‘Frontiera’, dando vita alla serie di incontri seminariali ancora in corso dal titolo Seminario Mediterraneo – Incontri sulla frontiera.
Il gruppo è coordinato da Andrea Baglione ed è formato da: Sara Brianti, Giovanni Centracchio, Marco Fornaseri, Martino Manca, Francisco Martín Cabrero e Valentina Maurella.
Eccolo il Mediterraneo come unità, Mediterraneo sognato. Un mare che accoglie, che fa sentire a casa, che ti culla dolcemente. E non solamente per coloro che sono al di qua. Un mare per tutti, un’unione di voci, l’immagine di culture che ballano insieme, non che prendono parte a una marcia funebre, spesso ignorando quanto accade sotto gli occhi di tutti.