Da un mese a questa parte, c’è nella redazione di mesogea un fiore, una gerbera gialloarancio, che dura e vive come fosse sbocciata ieri. Sta lì, gentile e mite nel suo vaso, come un piccolo sole di primavera anticipata e ciascuno di noi, arrivando intabarrato e mascherato ogni mattina, lo saluta passandogli accanto, sorridendo come a una persona, come si faceva un tempo, senza arretrare, senza scansarsi, senza mascherina, con gli occhi e con la bocca, con il viso tutto.
Quel fiore sta lì da quando abbiamo perduto un amico, Giovanni, un compagno delle nostre vite, uno dei nostri autori e uno dei nostri storici redattori.
Quel fiore ha il colore gialloarancio del pullover che indossava l’ultima volta che lo abbiamo visto e che siamo stati insieme per il nostro comitato di redazione, pochi giorni prima che improvvisamente ci lasciasse; che viva e sia qui ogni mattina è il nostro modo silenzioso di continuare quell’ultima riunione, di continuare la conversazione che, anche quando non riuscivamo a vederci, da anni ci rassicurava, mi rassicurava che sì, noi eravamo amici, e non conosceva usura la parola amici ma era vera e sensatissima, quella da cui a qualunque costo ricominciare, quella a qualunque costo da non smarrire, da non oltraggiare.
Di questo suo esserci in fiore e colore, sono certa, con Giovanni avremmo sorriso, se avessimo potuto parlarne, avremmo scherzato come bambini che fanno il gioco del ‘se fossi una cosa vorrei essere…’, avremmo sorriso con semplicità e tenerezza, senza star tanto a cercare significati sconosciuti; avremmo diviso, come la merenda in una scampagnata, quel dono raro di dirsi le cose, anche quando sembrano segreti, e di stare ad ascoltare, ad aspettare che dall’altro arrivi con le parole la carezza e la sorpresa. Aspettare che arrivi e suoni in altro modo, quello vero, la domanda di tutte più difficile: «come stai?». Non quella che tutti ci scambiamo quasi senza attendere risposta, come un tic del linguaggio, una domanda sordomuta, no… quell’altra, che sono sempre meno a saper dire, quel «come stai?» che ti mette al mondo ogni volta spingendoti a trovare le parole che non sai per dire la gioia, per dire il dolore, per dire l’indignazione.
Ci manca il nostro amico, ci manca il suo energico pudore, ci manca il suo istinto a riconoscere l’ingiustizia. E mi manca nello stesso modo in cui a tutti e due mancò Nino, l’altro amico che stava qui con noi a far libri senza lasciare mai fuori dalle pagine la vita e quella domanda: «come stai?».
Non è facile parlare di chi, come Giovanni, coltivò il talento di non volere stare al centro dell’attenzione pur riuscendo a essere nel cuore di tante persone, si ha il dubbio di fargli un torto.
Ma ci sentiamo amici, amici tuoi, ancora, caro Giò, amici in un mondo ubriaco di sorda inimicizia, perciò di parlarti e di ricordarti non possiamo fare a meno.
E continueremo a sorridere a quel fiore e a ritrovarci nelle tue parole, a ricordarci, proprio adesso, che «tante stanchezze unite, se lucidamente accettate, possono costituire una leva impensabile, ma solo se ci si specchia con umiltà e fiducia nell’animo altrui».
c.p. 15 gennaio 2021
Questo articolo ha un commento
La tenerezza di un fiore, la caparbietà di un moralista intransigente, la circolazione extracorporea per il cuore di tanti. Una presenza assente solo fisicamente…anche perché mi deve restituire dei libri.